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Riprendiamo dopo l’estate il ciclo di interviste sull’evoluzione della sanità integrativa…

Abbiamo intervistato Mirco Tonin – Professore ordinario di Politica Economica, presso la Facoltà di Economia della Libera Università di Bolzano, esperto in economia comportamentale e sperimentale.

Professore Tonin, si è aperto un dibattito sull’opportunità che i decisori pubblici utilizzino per le scelte di programmazione sanitaria anche i dati sui consumi sanitari dei fondi integrativi. Che sono sì soggetti di diritto privato, ma perseguono finalità mutualistiche e solidaristiche. Lei cosa ne pensa?

Intanto, è importante affermare un principio di fondo: la qualità delle decisioni è fortemente influenzata dal possesso e dall’efficace utilizzo di dati. È il principio della evidence-based policy, tale per cui i decisori basano le proprie scelte sulle evidenze, in questo caso sui dati relativi all’evoluzione e alla composizione dei consumi sanitari.

Ora, l’elemento interessante dei fondi sanitari è che le vostre banche dati sono basate su dati reali, e non campionari e auto-riportati. Nel caso di Sanifonds Trentino, ad esempio, la banca data è consistente da un punto di vista numerico e naturalmente rappresentativa della popolazione degli iscritti, senza dover utilizzare metodologie campionarie.

Quanto agli scenari evolutivi, in un "mondo ideale" ne vedrei due. Il primo, l’integrazione del dato sul consumo sanitario con quelli sugli stili di vita; questo si tradurrebbe in una fonte di ricchezza informativa enorme, e non è un caso che le assicurazioni – seppur con finalità diverse – propongano coperture sanitarie integrate con prodotti e app relativi alla prevenzione, al monitoraggio e alla promozione di stili di vita sani.

Il secondo, e torno alla domanda iniziale, è l’integrazione con le banche dati pubbliche.

Su cui, ci pare di poter dire, in Italia siamo molto indietro…

Certamente. Siamo molto indietro se ci paragoniamo ad esempio alla Svezia, dove le banche dati sono di alta qualità proprio perché contengono informazioni puntuali di diversa natura, che integrano molteplici aspetti della vita delle persone, e molto spesso i database vengono messi a disposizione della comunità per la ricerca.

E questo introduce un ulteriore argomento, quello dell’accessibilità del dato. Il dato deve essere condiviso in maniera anonimizzata, ma mantenendo la struttura di dato grezzo. In un sistema di open data, infatti, la condivisione del dato permette ai ricercatori di condurre analisi, che a loro volta genereranno conoscenza. Poi, questa conoscenza sarà divulgata ai membri della comunità e – alla fine di questo circuito virtuoso – diventerà quasi "naturalmente" uno strumento per migliorare il processo decisionale dei decisori pubblici. Restando in casa nostra, è questo il tentativo che sta facendo l’INPS con il proprio enorme patrimonio informativo, attraverso il programma VisitInps.

Temi affascinanti, Professore. Ma quanto conta la mentalità dei cittadini, il loro modo di pensare?

Ovviamente moltissimo. Nei paesi scandinavi tutto questo è più agevole, anche perché è accettato che lo Stato disponga anche di dati molto sensibili; in Gran Bretagna, all’opposto, vi è una forte diffidenza verso la condivisione di dati personali con le autorità pubbliche. Direi che l’Italia si colloca a metà: da un lato non siamo predisposti ad una totale condivisione del dato con le Amministrazioni Pubbliche, dall’altro non vi è un rapporto così ossessivo con la privacy, nonostante gli adempimenti burocratici connessi al tema possano ogni tanto far pensare il contrario.  

Lei è uno studioso di economia comportamentale. Sanifonds l’anno scorso ha introdotto il Premio Digitale, ossia una maggiorazione dei rimborsi riservata a chi utilizzasse per le pratiche amministrative esclusivamente la nostra piattaforma digitale. Qual è la sua visione di questi incentivi?

Faccio intanto un passo indietro: la questione fondamentale, poiché abilitante all’effettiva efficacia di qualsiasi incentivo, è la fruibilità della piattaforma. Qualsiasi efficace politica di "ingaggio digitale" deve partire da un’interfaccia intuitiva, che renda naturale e agevole il processo di interazione dell’utente con il Fondo o con l’azienda.

Fatto questo, possono entrare in gioco gli incentivi. E qui dobbiamo avere in testa due "mantra": il primo, è il rischio di reazioni "non previste"; il secondo, che discende dal primo, è l’importanza di monitorare i risultati delle sperimentazioni.

Partiamo dalle reazioni “non previste”…

Ciò che voglio sottolineare è che l’incentivo può funzionare anche in modo controintuitivo. Mi piace citare spesso questo caso di studio: in una scuola dell’infanzia di Haifa (Israele) c’era il problema che i genitori arrivavano spesso in ritardo per prendere i bambini a fine giornata. La direzione della scuola ha deciso quindi di introdurre una multa, salvo poi osservare che i ritardi erano addirittura aumentati. In pratica, l’istituzione della multa aveva "legittimato" il comportamento – arrivare in ritardo – che invece si desiderava combattere. E, evidentemente, il disincentivo monetario era molto meno forte del timore della "riprovazione sociale" (ossia il fatto che un genitore temesse di essere giudicato negativamente per il fatto di arrivare in ritardo) che la multa aveva di fatto eliminato, rappresentando il "prezzo" del ritardo.

Da qui, immaginiamo, l’importanza di un monitoraggio costante del funzionamento degli incentivi

Esatto. Diciamo che gli incentivi monetari vanno certamente bene per "rompere" una barriera iniziale, ma ricordiamoci di monitorare costantemente i risultati e non darli per scontati, altrimenti potremmo avere delle amare sorprese!

Spostiamoci un passo di lato, dai fondi sanitari alle compagnie assicurative. Che hanno accelerato l’uso del digitale come piattaforma per l’offerta di coperture sanitarie integrative avvalendosi di un meccanismo di acquisto automatizzato mutuando in parte le logiche della RC Auto.

Che l’esperienza d’acquisto online stia diventando il percorso d’acquisto comune è un dato ormai acquisito. E quest’onda è destinata certamente ad investire anche i consumi sanitari. Allo stesso tempo, dobbiamo tener conto delle specificità dell’ambito sanitario. Dove il processo di scelta (ad esempio la scelta di una struttura o di un professionista) è più complessa rispetto a settori business to consumer (ad esempio, la moda). Se non altro perché entrano in gioco fattori emotivi.

Proprio per questo, l’architettura digitale dovrebbe poggiare su due pilastri. Essere semplice, e questo lo abbiamo già detto, altrimenti l’utente resterà "bloccato" e continuerà a prediligere lo status quo. E, cosa ancor più importante, riprodurre l’albero decisionale dell’utente. In altri termini, farlo navigare guidato dai suoi obiettivi (in questo caso, di copertura sanitaria) e non farlo navigare da un "prodotto" (la copertura sanitaria, appunto) all’altro. È esattamente ciò che hanno fatto alcuni istituti finanziari con la previdenza complementare e i risparmi: l’utente naviga in base agli obiettivi che dichiara (aumentare la pensione? Far fruttare una somma disponibile? Garantire una rendita al coniuge? )  e, da lì, "atterra" su un prodotto piuttosto che su un altro.

E questo, ci pare di capire è anche un modo per tutelare il cliente.

Esattamente, perché riduce il rischio di "deviare" il suo processo decisionale. Rischio che è molto elevato in un settore, come quello sanitario, in cui è forte l’asimmetria informativa (ossia il gap informativo tra l’azienda che gestisce i contenuti e il cliente /paziente /iscritto che li utilizza per prendere una decisione).

Professore, al termine di questo “viaggio” nella trasformazione digitale, vorremmo parlare di giovani e risorse umane. Quali competenze devono avere i ragazzi che escono dalle vostre Università per operare, con soddisfazione, in questo contesto.

I nativi digitali hanno certamente competenze elevate nell’utilizzo delle tecnologie. Hanno però spesso scarsa conoscenza in relazione all’architettura digitale, ossia ciò che sta dietro alle interfacce utilizzate. E questo è un problema: in primo luogo, perché impedisce loro di comprendere appieno le implicazioni manageriali e di processo delle tecnologie: in altri termini, rischiano di essere bravi ad "utilizzare", ma non "a governare" le tecnologie. In secondo luogo, perché le tecnologie diventano subito obsolete, quindi il "vantaggio competitivo" di un giovane che abbia imparato ad usare un software o una specifica tecnologia è indifendibile.

Se dovessi, infine, evidenziare un ambito che mi pare sottovalutato, citerei la capacità di comprendere la "fisicità" degli ambienti cloud, aspetto fondamentale per essere in grado di prendere decisioni riguardanti la protezione e conservazione dei dati raccolti.

 

 

Mirco Tonin

Professore ordinario di Politica Economica, presso la Facoltà di Economia della Libera Università di Bolzano, esperto in economia comportamentale e sperimentale.